“Comunicare è alla base, ma chi è all’altezza?” Con questo slogan, alcuni anni fa, la trasmissione Il Comunicattivo di Igor Righetti poneva in maniera molto efficace la questione della “società della comunicazione”.
A partire dagli anni ’80 l’importanza della comunicazione è progressivamente aumentata e ha invaso tutti i settori e a tutti i livelli. Ma con una terrificante deformazione che, anche questa, si è esponenzialmente amplificata sino a giungere al paradosso di far coincidere la comunicazione con il fatto stesso di apparire.
Parla e sparla chiunque, si parla e si sparla di qualsiasi cosa. Io sfido molti a riepilogare i concetti espressi in una qualsiasi trasmissione televisiva, che tratti qualsiasi argomento: non si riesce più ad ascoltare, ma solo a sentire suoni. La tecnica non è quella di comunicare ma più semplicemente scomunicare, nel senso di parlare sull’altro, contro l’altro in una sorta di braccio di ferro dell’ugola o per dimostrare chi ce l’ha più grosso (il tono della voce).
Qualche anno fa mi fece molto sorridere un tentativo di moderazione attuato dal “grande” Biscardi che, in un certo senso, ha inventato un nuovo modo di comunicare lo sport attraverso il giornalista-tifoso. In un momento di “rissa” verbale del tipo curva nord-curva sud intervenne in maniera seccata con un perentorio: “Basta, basta. Parliamo al massimo due per volta senò non si capisce niente!”. Un mito.
Ma evidentemente Biscardi aveva capito tutto, aveva compreso che lo spettacolo andava oltre l’informazione, che al tifoso, in fin dei conti, non interessava un’analisi compita e precisa della partita (alla Brera o alla Tosatti, per intenderci) ma solo che alla fine dell’ambaradan la sua fede calcistica avesse avuto la meglio e quindi che il suo “rappresentante” sul palco avesse urlato una volta di più rispetto all’avversario “ci hanno rubato 3 punti!”.
I media (nuovi e semi-nuovi) hanno certamente arricchito il nostro patrimonio (anche se francamente hanno arricchito molto di più le tasche di rampanti imprenditori, ma questo è un altro discorso…) e ci offrono ogni giorno nuove opportunità. Purtroppo, però, i televisori non sono accompagnati da un “manuale d’uso sociale” e non esiste nemmeno una patente per chi produce i contenuti o per chi li guarda. Dobbiamo navigare a vista. E per questo è più facile che emergano e prendano piede fenomeni da baraccone che ci appiattiscono verso una visione della realtà che non è reale. Cosa c’è di meno reality di un reality? Dubito che nelle nostre case, nelle nostre scuole si possano vivere situazioni da Grande Fratello, Isola dei Famosi o Fattoria. Ma quello che conta è l’effetto: nella società quelli diventano i nuovi modelli, senza mediazioni.
La comunicazione è diventata un grande business e chiunque abbia uno straccio di telecamera o freepress lo sa benissimo. Sa benissimo del potere di cui dispone che, per quanto piccolo, riesce ad ottenere molte chiavi di accesso ed una possibilità di entrare nella testa delle persone. E lo sanno anche i potenti di turno, in questa partita doppia della complicità mediatica.
Qualcuno dirà che adesso c’è più vivacità, che prima era tutto piatto, noioso. Ma io non concordo. Semplicemente prima la comunicazione era “comunicazione”. Adesso è spettacolo e quella che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni è la società dello spettacolo (che a sua volta si basa sull’immagine). Lasciamola stare al suo posto la comunicazione, nel camposanto.
Prendiamo la RAI del passato. Nei filmati d’epoca ci sembra di assistere ad un’altra era che fatichiamo a collocare solo qualche decennio addietro. E’ vero che i TG erano semplicemente radio-giornali ripresi da una telecamera, ma le tribune politiche erano dei dibattiti in cui ci si confrontava con educazione tra avversari politici che sapevano comunicare, eccome. Avevano le idee chiare, rispondevano alle domande, si difendevano dalle critiche e dagli attacchi extra-politici. Ma utilizzavano i contenuti per convincere il telespettatore.
E qui viene il punto. I contenuti.
Sebbene i padri fondatori della nostra Repubblica fosse degli ottimi comunicatori (non nel senso della spettacolarizzazione della propria immagine) il focus dei loro interventi erano i contenuti. Poi il telespettatore-elettore decideva, anche sulla base di una divisione ideologica allora molto più forte di oggi, ma sempre avendo la certezza di aver ascoltato e capito le ragioni degli uni e degli altri.
Tecnicamente, la comunicazione è una leva del marketing. Questo è ciò che un centinaio di anni di business moderno ci ha insegnato. Leva nel senso che è uno strumento in grado di veicolare il valore di un qualcosa e di convincere chi da questo valore ha qualcosa da guadagnarne. Ma non è “l’unico strumento” e nemmeno “lo strumento”. Prima di pensare alla comunicazione occorre pensare a quello che si intende proporre con la comunicazione. E questo chiunque lo sa.
Ma poiché l’obiettivo della società dello spettacolo è sempre stato quello di stupire con effetti speciali, essere fantascienza più che scienza, non mi stupisce che in pochi abbiano un “progetto di comunicazione” che risponde a dei valori personali, politici, imprenditoriali.
Ecco perché mi arrabbio quando si parla di “società della comunicazione”. La comunicazione ed il marketing sono una cosa seria che ci aiutano a informarci, capire, scegliere sulla base di ciò che corrisponde meglio ai nostri valori.
Questa è una società spettacolo che ci priva del nostro sistema di valori condivisi, che ci toglie la libertà di decidere nella cieca convinzione che valga più un provino al Grande Fratello che un impegno continuo e costante nel costruire, giorno dopo giorno, quel bagaglio personale che dovrebbe accompagnarci nel lungo viaggio attraverso la nostra esistenza.
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