Oggi il Giudice Imposimato ha rilasciato la seguente intervista a tiscali.it:
L'appello di Imposimato: "La stessa mano dietro la morte di Moro e Borsellino: i giudici dicano la verità sulle stragi"
di Antonella Loi
Oggi come ieri, i magistrati di trincea non hanno vita facile. Nell'Italia berlusconiana come in quella democristiana è un tornare di vezzi vecchi ma sempre attuali. "I magistrati titolari di inchieste scomode patiscono quello che patirono Falcone e Borsellino". Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione e giudice istruttore in alcuni dei casi più eclatanti e misteriosi dell'Italia repubblicana - dal caso Moro alle stragi di terrorismo e mafia, fino al tentato omicidio di Giovanni Paolo II - non ha dubbi: oggi i giudici devono lottare contro l'isolamento, "soprattutto in relazione alle terribili verità che stanno emergendo dalle inchieste in corso". Palermo e Caltanissetta, in primis, sono le due procure su cui sono puntati i riflettori. La verità processuale di fatti già ritenuti assodati e che mostrano la collusione tra pezzi di Stato e Cosa Nostra, la cosiddetta "trattativa" fra Stato e mafia, potrebbe emergere presto. “Gli strumenti ci sono”, dice Imposimato mentre a Sestu (Cagliari) partecipa alla seconda "Giornata della legalità e moralità" dedicata all'unica donna della scorta di Borsellino, Emanuela Loi.
Quali sono questi strumenti?
“Innanzitutto rendere note le informazioni che già si hanno. Mi riferisco in particolare ai giudici di Palermo e Caltanissetta. Da una parte per difendersi, dall’altra perché noi cittadini non possiamo aspettare altri vent’anni per avere una verità su quanto accaduto a Falcone e Borsellino o quanto accaduto ad Aldo Moro”.
Non lo fecero nemmeno i due giudici palermitani.
“Sbagliando secondo me. Se avessero detto quanto sapevano, forse le cose sarebbero andate diversamente. Poco tempo dopo il fallito attentato dell’Addaura, incontrai Falcone e gli chiesi se secondo lui dietro quel fatto ci potessero essere esponenti dei servizi segreti. Forse perché io all’epoca ero parlamentare, anche se indipendente di sinistra, o forse perché Falcone era uno notoriamente prudente, non mi rispose. Sono convinto che abbia sbagliato”.
Falcone però andò diverse volte in tv per raccontare i fatti dei quali si stava occupando.
“Sì ma certi elementi non emersero mai. E’ inaccettabile che delle persone che nulla c’entrano con la strage di via D’Amelio nella quale morì Borsellino siano finite in carcere e i veri responsabili invece siano ancora liberi. Se questi avesse detto cose che certamente sapeva, chi ha indagato dopo sulla sua morte non sarebbe incappato in simili errori. Anche se, chiaramente, c’era un’attività di depistaggio, sostenuta da una stampa collusa, che ha prodotto risultati concreti per vent’anni: siamo ancora qui senza avere giustizia”.
Emblematico dei tempi è l’iter che seguì la legge sul carcere duro e sui collaboratori di giustizia.
“Ho collaborato con i due magistrati dall’80 all’86 e insieme lavorammo molto per la norma sul 41 bis, il carcere duro per i mafiosi che, anche da dietro le sbarre, continuavano a ordinare stragi e omicidi. La legge incontrò sempre molte resistenze e fu approvata solo dopo la morte di Borsellino. Lo stesso dicasi per quella sui collaboratori di giustizia per la quale lavorai anch'io. Una legge necessaria dopo che i primi esponenti di Cosa Nostra cominciarono a parlare. E questo fatto creò grandi allarmi negli uomini politici che sapevano che se le collaborazioni fossero diventate un fenomeno diffuso sarebbero emersi rapporti terribili tra mafia, imprenditoria e uomini politici. Ma convegni e colloqui con i vari ministri degli Interni non servirono a nulla: questa legge non la voleva nessuno. Erano i tempi della Dc”.
I due magistrati vennero chiamati “professionisti dell’antimafia” da Sciascia.
“Sì a tratti il loro lavoro non veniva capito. Borsellino soffrì molto per queste parole e più volte nei due fu ricorrente il senso di solitudine. Ho letto proprio in questi giorni i verbali dell’interrogatorio a Falcone davanti al Csm, quando fu costretto a difendersi perché accusato di colludere con Cosa Nostra insieme a Borsellino. Vennero interrogati come se fossero due criminali. Ho i verbali perché il regista Rosi me li chiese per farne un film: una pellicola sulla persecuzione che i magistrati palermitani subirono prima della loro morte”.
Oggi sembra siamo vicini alla verità sulla morte dei due giudici palermitani. Ma anche la terribile verità sulla morte di Aldo Moro sta emergendo. Lei ha scritto un libro, “Moro doveva morire”, nel quale scrive nomi e cognomi dice chi mosse la mano contro lo statista democristiano. “Esatto. A distanza di trent’anni ho potuto scoprire che Moro era stato vittima di un complotto politico in cui entravano due uomini di governo, dei servizi segreti, uomini della loggia massonica P2, la stessa di cui fa parte il presidente del Consiglio. Tutti dentro un comitato di crisi istituito al ministero dell’Interno per deviare le indagini e per impedire che Moro venisse salvato. Però per venti anni io non l’avevo capito”.
Depistaggi e omissioni: Moro come Falcone e Borsellino insomma?
“Esatto le vicende sono collegate perché sono gli stessi uomini dei servizi segreti e della P2 che poi troveremo nel ‘92 a fare le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Queste cose le ho scritte nel mio libro, facendo nomi e congnomi e non ho ricevuto nessuna richiesta di rettifica né dagli uomini della P2 che da uomini politici. Io faccio mea culpa: nel caso Moro per anni ho creduto alla linea della fermezza seguita dallo Stato, ma poi grazie a documenti dati da un senatore alla commissione stragi, è emerso che non solo c’era chi sapeva del rapimento di Moro e della strage degli uomini della scorta, ma anche chi conosceva il covo e lo statista non fu mai salvato”.
Stessa mano, stesso burattinaio?
“Sì, lo dico anche perché l’epurazione nei servizi segreti, dopo la scoperta della P2 non venne fatta come si deve: i servizi rimasero deviati. Nel caso della morte di Moro i documenti dimostrano che presso il ministero dell’Interno c’era un comitato di crisi di cui facevano parte solo uomini della P2, dei servizi, un agente della Cia e un agente del Kgb, individuati con nome e cognome. Però guai a generalizzare e mettere tutti nella stessa barca: non tutti erano coinvolti in questa congiura, molti non sapevano. E queste cose le scrivo e le documento io che per anni mi sono rifiutato di credere alle tesi dei cosiddetti 'dietrologi'”.
15 febbraio 2011
Con una bella faccia tosta oggi a distanza di quasi 33 anni, Imposimato ci confessa che a causa della sua incapacità, non siamo giunti alla verità sul caso Moro.
Qual'è lo scopo, farsi un po' di ulteriore pubblicità, raccontare storie per depistarci ulteriormente?
Io ritengo che abbia guadagnato abbastanza in termini economici, professionali e notorietà, tali da meritarsi un giusto riposo, volto a meditare con se stesso e la propria coscienza. Egli è sempre stato organico allo Stato, lo stesso Stato che da 60 anni ci nega la verità su ogni atto oscuro che le vittime di questo Paese rivivono ahimè ogni giorno.
Intendo porre un quesito concreto al Giudice Imposimato, nella speranza trovi il coraggio di rispondere.
Nel 1978 mio padre Benito Cazora relazionò tutti riguardo i suoi tentativi di salvare la vita di Aldo Moro come le carte dimostrano. Sulla base di quelle carte e sui racconti di mio padre, che dimostrò di essere stato il primo ad individuare il covo di Via Gradoli e come ultimo aver notiziato Cossiga della prevista morte di Moro 2 giorni dopo, come tristemente avvenne fu ascoltato allora dallo stesso Imposimato.
Ciò detto chiedo come mai ascoltate tali verità non lo inserì nell'elenco dei testimoni? Fu un atto di malafede o sempre di totale incapacità? Grazie a lui e tanti altri il Paese attende invano.
In Italia si è tra le tante cose perso il senso della vergogna, sentimento che ognuno di noi dovrebbe provare quando compie un gesto ingiusto, cerchiamo di ripristinarlo, altrimenti saremo un popolo privo di ogni speranza.